Quello che colpisce con l’entrata in scena del testamento spirituale di Christian de Chergé è il suo titolo : « Quando un AD-DIO si profila » . Io credo di percepire un primo messaggio in questo titolo, che mi parla di un Dio senza volto… Sì, intendo questo nella frase « Quando un AD-DIO si profila », per stupefacente che possa sembrare. Ma cosa c’entra questo « Dio senza volto» nel titolo del testamento spirituale di Christian de Chergé ? Come lo vedremo più avanti, si tratta, per lui, di vedere i suoi fratelli musulmani con lo « sguardo del Padre », verso la fine del testo. … Ma all’inizio del suo testamento, intende la sua dipartita dal mondo dei viventi. E’ come uno di loro, non vede ancora con lo sguardo del Padre, è nell’angoscia umana, naturale : è davanti ad un Dio senza volto.
Christian de Chergé intende dunque « essere vittima del terrrorismo », nella cerniera degli anni 93-94, così terribili per il popolo algerino in seno al quale ha vissuto bambino e dove vive da più di 20 anni. Sente che questa fine drammatica è possibile, probabile. Vive allora la finitudine umana con acutezza ed è più vicino che mai al mistero dell’incarnazione. Ma prima di partire, se bisogna partire, vuole trasmettere un messaggio al mondo, un messaggio importante per l’avvenire, un messaggio di vita, un messaggio di pace.
La sua vita in Algeria è stata segnata, fecondata in particolare da un « ribat el salam », un « legame di pace » vissuto con dei Sufì di Medea della Tariqa alawiyya (sotto forma di incontri regolari)[1], ma in maniera più generale, attraverso i suoi numerosi e regolari incontri con i musulmani algerini. Christian de Chergé era lettore del Corano e nelle sue omelie citava regolarmente delle Sure e arrivava fino a riconoscere che il messaggio coranico è parola di Dio rivolta agli uomini[2], cosa che non è senza dubbio il caso di molti cristiani, per non dire la maggioranza, anche se molti sono degli adepti del famoso dialogo interreligioso...
Allora se c’è qualcosa soprattutto che non vuole – specialmente la sua morte - è che i SUOI, la sua comunità, la sua Chiesa, la sua famiglia, accusino l’Islam e i musulmani del suo assassinio. La prima frase del suo Testamento spirituale è senza ambiguità, e ha la determinazione dell’impegno senza esitazione, la fermezza della decisione responsabile, riflettuta : « la mia vita era DATA a Dio e a questo Paese ». Ecco che è chiaro ! Un dono vero non esita, non tituba, non contratta : Christian dona la sua vita a Dio e all’Algeria ! E’ forse necessario ricordare che nel 1960 una guardia campestre di nome Mohammed (tutto un simbolo!) è stato assassinato da dei mujaiddins per aver salvato la vita del suo amico Christian, che era allora ufficiale dell’esercito francese in Algeria[3] ?
Una vita sacrificata per una vita salvata mi fa pensare a questa parola evangelica : « Perché colui che vorrà salvare la sua vita, la perderà, e colui che la perde a causa mia e del vangelo, la salverà » (Mt 8,35). Può mai essere, allora, che un musulmano portatore del nome del Profeta dell’Islam abbia applicato alla lettera questa parola di Cristo ? Non c’è dubbio che per il giovane ufficiale Christian de Chergé fu proprio il caso. Questo sacrificio della guardia forestale Mohammed fu allora fondatore ? Il giovane Christian de Chergé ha forse capito in quel momento che Cristo non appartiene a nessuna confessione particolare e che il suo Verbo può anche animare un musulmano ?
E’ probabile ... Molti anni dopo questo avvenimento traumatico, Christian è pronto anche lui a dare la sua vita all’Altro : a Dio e all’Algeria. L’ordine non è evidentemente inconsueto : dare la sua vita a Dio prima di ogni altra cosa vale per ogni credente sincero, e dare la sua vita all’Algeria è proprio di Christian de Chergé, della sua inividualità particolare. In questa prima frase del suo testamento spirituale lui afferma la sua fede nell’Algeria, che è indissociabile della sua fede in Dio.
La seconda frase del Testamento è ricchissima in questo senso. Cito : « Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. » In quanto musulmano, non posso che essere recettivo di questa parola così giusta. Si potrebbe dire che essa riassuma da sola l’Unicità divina alla quale ogni musulmano normalmente crede. Il grande mistico sufì che fu l’Emiro Abdelkader, afferma nel suo « Kitab el Mawaqif » (« Il libro delle Pause ») : « Nell’universo niente è infedele ad Allah se non in maniera relativa ».
L’Emiro esprime così la quintessenza della dottrina dell’Unicità, il Tawhid. Sì, c’è del bene e del male nel mondo umano, perciò è necessaria la Legge della Charia. Ma dal « punto di vista » divino, niente è un male assoluto. Nel Corano, Allah afferma : « La mia Misericordia abbraccia ogni cosa » (Sura « Le muraglie », 7.156). E un hadith qudsi (hadih sacré et authentique) attribuisce questa parola ad Allah : « La mia Misericordia è collocata più in alto che la mia collera », o, secondo un’altra versione : « La mia Misericordia precede la mia collera ».
C’è un’altra Sura del Corano che può aiutarci a comprendere questa parola di Christian de Chergé, ed è la Sura 18, intitolata « La caverna », che parla della storia dei Sette Dormenti di Efeso , come i sette monaci martiri di Tibhirine… ma ugualmente una storia favolosa e molto ricca in simbolismo : l’incontro tra il Profeta Mosé e un misterioso personaggio che la tradizione musulmana nomina El Khadir, che significa Il Vento o Il Verdeggiante. Questo racconto simbolico ci dice che Mosè, incarnando senza dubbio il profeta della Legge, desidera essere iniziato ad una scienza divina che solo El Khadir può insegnargli.
Ma questi avverte Mosé che non avrà certamente abbastanza pazienza per comprendere questa scienza che cerca. Mosè gli fa la promessa che sarà paziente e El Khadir accetta che lo segua, ma rapidamente il suo discepolo è indignato per i movimenti del suo iniziatore che fa affondare una barca di pescatori, uccide un giovane uomo e rende servizio ad un villaggio che rifiuta di accoglierli… El Khadir imterrompe allora l’iniziazione di Mosé, ma prima di lasciarlo, gli rivela il segreto del suo comportamento che era ingiusto solo in apparenza.
Rileggiamo allora questa frase di Christian de Chergé alla luce di questo racconto coranico : « Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale ». Si potrebbe forse dire che questo monaco cristiano ha avuta la pazienza esigita da El Khadir che Mosé non ha avuto ? Il luogo dell’incontro con El Khadir il Verdeggiante è la confluenza dei due mari, il barzakh, che è il « luogo » in qualche sorta della congiunzione di tutti gli opposti.
La Sura 18 ci dice ugualmente che in questo luogo un pesce ha ritrovato la sua origine, come se questo barzakh fosse l’origine della vita stessa.
Proprio come Mosé, noi possiamo azzardare dei giudizi negativi, percepire dell’ingiustizia in cio’ che ci appare come non-senso. E possiamo anche andare nella disperazione fino ad accusare Dio di questa ingiustizia apparente, perfino rinnegarLo, dimenticarLo… « Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale ». Christian de Chergé sembra, invece, accettare il non-senso apparente della sua morte brutale che presagisce senza dubbio perché si abbandona totalmente alla volontà divina e perché ha fede nella misericordia divina, necessariamente superiore al non-senso apparente del mondo.
Nella tradizione sufì, questa fiducia serena in Dio è chiamata Tawakkul, che si può tradurre come abbandono totale a Dio, fiducia totale in Dio, ma noi a proposito del Tawakkul di Christian non parliamo di coraggio, e ancor meno di ingenuità, come lui stesso lo segnala più avanti,nel testo : «La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa! » Il Tawakkul, l’abbandono fiducioso in Dio non è né coraggioso né ingenuo : è fiducia, fede nutrita del Verbo di Dio stesso. Un albero sano non è né coraggioso né ingenuo, è ! Ascoltiamo quello che ci dice il Corano, nella sura Abraham, di quest’albero sano :
14,24 « Sai a che cosa il Signore paragona, a titolo di esempio, la buona parola ? A un bell’albero le cui radici si fissano solidamente nel suolo e i cui rami si slanciano verso il cielo.
14,25 producendo, per la grazia del suo Signore, dei frutti ad ogni istante. E’ così che Dio per spinger gli uomini a riflettere, propone delle parabole.
14,26 Al contrario, una parola cattiva è simile ad un albero dannoso che si sviluppa al livello del suolo senza mai avere un appiglio solido. »
Christian de Chergé è portatore di una tale parola viva, feconda, ed è intenzionalmente che ne parlo al presente …
« Che preghino per me : come potrei essere trovato degno di una tale offerta ? » Sorprendente domanda ! Ma coerente nello spirito di Christian, come lo conferma dopo. Lui non vuole essere visto come un candidato al martirio, non è questo il suo desiderio, sarebbe un desiderio egoista che non ha niente a che vedere con il suo vissuto, la sua esperienza, la sua aspirazione profonda. Non vuole essere considerato come un essere straordinario, un essere coraggioso o più forte degli altri. Egli pensa a tutte le vittime della violenza degli uomini morti nell’anonimato, e ci tiene ad essere visto come un essere umano qualunque (lambda), la cui vita non ha nè più nè meno valore di quella di ogni essere umano.
Ma dopo aver fatto questa precisazione, incatena un’altra affermazione dalla portata spirituale considerevole : la sua vita – dice - « non ha l’innocenza dell’infanzia ». E aggiunge : « Ho sufficientemente vissuto per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, ed anche di colui che mi colpirebbe ciecamente ». A questo punto del testo io non posso fare a meno di pensare alla frase di Dostoievski ne I fratelli Karamazov : « Siamo tutti colpevole di tutto e di tutti, ed io più che gli altri ». Sì, il Testamento spirituale di Christian de Chergé ha degli accenti dostoiveschiani, fino al perdono accordato e anticipato al suo possibile assassino. Ma questo Testamento ha soprattutto un accento cristiano.
Christian riafferma in seguito che non si augura di morire, che non si augura di finire la sua vita come martire, soprattuto se deve questo « martirio » ad un musulmano che crederebbe di agire conformemente all’Islam, perché non vuole che l’Islam, nel suo insieme, sia stigmatizzato a causa della sua morte. Lui, che ha frequentato tanti musulmani in Algeria, da non qualificare assolutamente di « moderati » come lo si fa credere oggi, sa con pertinenza che la violenza che insanguina il suo Paese di adozione, non è dettata dall’ Islam in sé, ma è generata da troppi anni di frustrazioni, di umiliazioni, di miserie, di sofferenze del popolo algerino, il quale non accetta più che un Paese ricco come il suo non pervenga a sovvenire alle sue necessità più elementari. … « Io so di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi ». Qui Christian non precisa chi disprezza gli Algerini, … si pensa evidentemente alla Francia colonizzatrice, ma perché non anche allo stesso potere politico algerino ? Un popolo disprezzato ha delle ragioni oggettive per rivoltarsi, e il popolo algerino è, in più, un popolo molto fiero !
E poi viene questa frase magnifica: “L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un’anima”. A questo punto del testo, Christian mette il dito su qualcosa di assolutamnte fondamentale: il patrimonio spirituale dell’Algeria. Nel 2009 a Tariqa Alawiyya, dove la guida spirituale è lo Sceicco Khaled Bentounès e dove la “zaouia” madre si trova a Mostaganem nell’Est algerino, ha celebrato il suo Centenario, e in questa occasione lo Sceicco Bentounès ha lanciato una “carovana della speranza” sulle strade del territorio vastissimo dell’Ageria per promuovere, esporre, far scoprire o riscoprire il patrimonio tanto ricco dell’Algeria, gelosamente preservato da secoli in un grande numero di “zaouias”.
Questa “carovana della speranza” non aveva alcun intento di fare del proselitism, ma intendeva animare o rianimare l’anima viva dell’Algeria di cui parla precisamente Christian de Chergé. Il “ribat al salam” evocato più sopra fu un vincolo di pace tra i monaci cristiani di Tibhirine e dei “fugaras” (discepoli) della Tarqa Alawiyya di Medea, e questa carovana della speranza passava proprio a Tibhirine nel giugno 2009 per iniziativa di questi discepoli alawi che voleva rendere omaggio ai monaci martiri, alla presenza di cristiani d’Algeria, dell’Arcivescovo d’Algeri e dell’Ambasciatore di Francia in Algeria. Christian de Chergé ha dunque perfettament compreso il ruolo chiave della spiritualità musulmana in Algeria, perché effettivanente, un corpo sen’anima è un corpo morto! Ma, che cos’è anche un’anima senza corpo?
Il corpo, è l’Algeria, ed è in qualche modo un corpo materno per Christian. Dopo aver affermato che l’Islam e l’Algeria son un corpo e un’anima, aggiunge: “ L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani”. Qui si mescolano le immagini di un’Algeria materna, di una madre che, sulle sue ginocchia, gli insegna il Vangelo con amore, e di una madre spirituale che è la Chiesa. Bella trinità! Io non penso che sia un caso che Christian metta così l’accento sull’aspetto materno della sua esperienza spirituale in Algeria.
Nella tradizione musulmana, il matriarcato è fondamentae: la formula che deve iniziare ogni azione e ogni recitazione coranica è: bismillah el rahman el rahim tradotto generalmente come “nel nome di Dio, il Clemente e il Misericordioso”. Ma le parole “rahman” e “rahim”, che sono i due Nomi di Allah più invocati fra i Suoi 99 altri Nomi, evocano anche la dimensione matriarcale di Dio, la sua dimansione materna. La tradizione Sufì dice che Allah ama i Suoi servitori come una madre. Un hadith racconta la storia seguente:
Un giorno, il Profeta Maometto, trovandosi con dei Compagni, vide un bambino sul bordo di un precipizio, pronto a cadere, quando, improvvisa, arrivò sua madre che lo salvò in extremis. Il Profeta domandò allora ai Suoi Compagni: “C’è qualcuno che può amare di più questo bambino che sua madre?” I Compagni gli risposero: “No!” “Ebbene – rincarò il Profeta – Allah ama questo bambino più che la sua propria madre!”
Veniamo a questa dichiarazione di Christian, dopo aver evocato coloro che lo credono ingenuo: “Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze”. Certo, per il musulmano che sono io, qui c’è un linguaggio specificamente cristiano, quasi incompatibile con la mia fede, perchè negarlo?
D’altra parte Christian stesso non nega le differenze, al contrario, dice che allo Spirito di Dio piace giocare con le differenze al fine di stabilre la somiglianza fraterna e di stabilire la comunione dei cuori. Un hadith afferma che “la differenza (o la divergenza) è una misericordia di Allah”. E in effetti, come progredire nell’incontro con l’Altro senza questa differenza? Se non ci fosse differenza, non ci sarebbe neanche un movimento di incontro, e non ci sarebbe alcuna elevazione possibile, ma si resterebe su un piano di uguaglianza rasoterra, se posso dire. Si diventerebe disumani. E chi non avanza, indietreggia
Ma al di là di questa differenza necessaria, voluta da Dio stesso, c’è questo “sguardo del Padre” che unifica, riconcilia, si situa al di là delle opposizioni. C’è questo sguardo che Christian spera di raggiungere oltre la morte. Un versetto del Corano dice: “Tutto è destinato a morire, eccetto la Faccia del Signore”. (Sura “Il racconto”, 28,88). E’ questa Faccia di Dio che Christian vuole contemplare, questa Faccia in cui non c’è più opposizione e nella quale sono ristabilite comunione e somiglianza. Christian aspira a contemplare il vero Volto di Dio.
Potrebbe sembrare allora qu’egli si contraddica in questa fine di testo sconcertante di tenerezza e di compassione, perché all’inizio lui sottolineava que non desiderava morire martire, anche se aveva confessato fin dalla prima frase che la sua vita era data a Dio e all’Algeria. La tradizione sufì mi aiuta a comprendere che nel proposito di Christian non c’è nessuna contraddizione. Ecco quello che dice lo Sceicco Muhieddine Ibn Arabi, un grande maestro sufì del XII - XIII secolo a proposito dell’amore debordante di una certa categoria di servitori di Dio: “E’ l’eccesso di amore o pienezza dell’amore ifrat al-mahabba) o l’amore debordante (mahbba mufrita) a cui si applica questa parola divina: Quelli che credono hanno un amore più intenso (ashaddu hubban) per Dio (Corano, 2,65)”; poi, più avanti , dice: “Secondo il racconto, questa affezione si era impadronita di Zualyka (la moglie di Putifar), che si apri’ una vena e il sangue, toccando il suolo in diversi punti tracciò: “Joseph, Joseph!”, perché la menzione del nome dell’uomo che amava si era sparso nelle sue vene. E’ questo che si riporta anche di Al-Hallaj, il cui sangue, colando dalle sue membra amputate, ovunque scorreva scriveva il nome “Allah! Allah!” In questo stato lui improvvisò quei versi – che Dio gli faccia misericordia! -
“Nè membra, né giunture mi furono amputate
senza che il vostro nome, Signore, vi si trovasse!”
Casi simili rientrano in questa sorta di affezione e riguardano questi esseri straripanti d’amore (‘ushshaq) che trovarono, così, la morte per amore. Un tale sacrificio è denominato con il termine “amore” (gharam)[4] (Trattato dell’Amore, cap. 7 « Nomi dell’Amore », par 3 « Al-Ishq : Lo straripamento d’amore », Albin Michel,pp 123-124).
Christian de Chergé aspirava al martirio, dunque? Se sovrabbondava d’amore per Dio, possiamo rispondere positivamente a questa domanda, ma aggiungendo subito che è Dio stesso che rapisce il Suo servitore in questo modo, per scandaloso che possa sembrare. “Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale”… Un amico sufì mi ha detto un giorno, a proposito dei sette monaci martiri di Tibhirine: “E’ una fortune per loro! Questo martirio è il segno che Dio li ama molto!” Parole scioccanti? Scandalose? O piuttosto grido del cuore “che ha le sue ragioni che la ragione ignora? Ad ognuno di dare il suo proprio giudizio su questa questione delicata, intima… Ma questa frase di Christian sembra non lasciare alcun dubbio sulla comprensione del suo proprio sacrificio. “Questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, ringrazio Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, contro e malgrado tutto.”
Il Testamento spirituale di Christian de Chergé si conclude con un perdono accordato senza condizione a colui che lo assassinerà. Quando ho raccontato la storia del martirio dei sette monaci di Tibhirine a mio padre, lui mi ha detto: “I musulmani che hanno fatto questo andranno tutti direttamente all’ inferno, e i monaci martiri andranno direttamente in paradiso!”. Anche qui ci fu un grido del cuore! La maggior parte dei musulmani non può che essere scioccata e scandalizzata da un tale crimine contro dei servitori di Dio, tanto più che il Corano stesso fa l’elogio dei monaci cristiani ch pregano Dio giorno e notte.
La legge del taglione è generalmente ammissibile nella tradizione musulmana, ma c’è sempre la possibilità per la famiglia della vittima di un assassinio di ottenere il prezzo del sange per un altro mezzo che la morte dell’assassino. E poi, in questo versetto della Sura “Le api”: “Se dovete esercitare delle rappresaglie, che queste siano proporzionate all’offesa subita, ma se voi perdonate, questo varrà meglio per quelli che sono capaci di dominarsi” (16, 126)
Essere capaci di dominarsi… Penso, qui, alla storia di Abele e Cain così come è raccontata nel Corano:
5,27 “Racconta loro la storia dei due figli di Adamo nel modo in cui si è svolta. Ognuno dei due fratelli aveva fatto un’offerta , ma quella dell’uno fu accettata, mentre quella dell’altro non lo fu affatto. “Ti ucciderò”, dice quest’ultimo a suo fratello, il quale gli risponde: “Che vuoi, Dio non accetta che da quelli che Lo temono!”
5,28 “E se tu porti la mano su di me per uccidermi, io non farò lo stesso, perché io tem troppo il mio Signore, il Maestro (Signore) dell’Universo, per commettere un tale crimine!”
5,29 “Preferisco che tu ti carichi, solo, dei miei peccati e dei tuoi, e tu sarai, allora, votato alla Geenna, che è la giusta ricompensa dei criminali.”
5,30 “Ma non obbedendo che al suo istinto bestiale, Caino fu indotto all’assassinio di suo fratello. Lo uccise, dunque, e si trovò, per questo, nel numero dei riprovati.
5,31 “Dio inviò allora un corvo che si mise a grattare il suolo per indicargli come inumare il cadavere di suo fratello, e allora l’assassino gridò: “Povero me! Sono dunque incapace d’imitare questo corvo e di seppellire la salma di mio fratello?” E a partire da quel momento non cessò di essere roso da intensi rimorsi.”
Il versetto 29 di questa Sura, intitolata “Il Tavolo”, può apparire scandaloso! Abele dice a Cino che se lo uccide, si caricherà dei suoi peccati e di quelli della sua vittima! Si può allora essere presi da pietà per questo povero Caino “che non avrà saputo quello che faceva”… Il versetto 32 della stessa Sura, immediatamente dopo la storia di Abele e Caino, dice così: “Ecco perché Noi abbiamo prescritto questa legge ai figli d’Israele: chiunque ucide un essere umano non convinto di assassinio o di sedizione sulla Terra è considerato come l’assassino dell’Umanità. “Chiunque salva la vita di un solo essere umano, è considerato come se avesse salvat la vita dell’Umanità tutta intera.” Dio invia un corvo a Caino per fargli prendere coscienza del suo errore e farli provare dei rimorsi… Il corvo è l’uccello di cattivo augurio, quello che non riporta il ramoscello dell’ulivo di salvezza a Noé, ma chi, al tempo stesso, incita Caino a scavare la terra… Questa immagine di “scavare la terra” mi ricorda una storia vissuta da Christian de Chergé aTibhirine, ch’egli racconta così:
“Da quando, un giorno, assolutamente all’improvviso, mi ha chiesto di insegnargli a pregare, Mohammed (un abitante del villaggio di Tibhirine) ha preso l’abitudine di venire a intrattenersi regolarmente con me. E’ un vicino. Noi abbiamo anche una lunga storia di condivisione.
Sovente ho dovuto tagliare corto con lui, o passare dei week-ends senza incontrarlo, quando gli ospiti si facevano troppo numerosi e mi assorbivano.
Un giorno lui trovò la formula per richiamarmi all’ordine e sollecitare un appuntamento:
“E’ da molto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo!” L’immagine è rimasta. Noi ce ne serviamo quando sentiamo il bisogno di dialogare in profondità.
Una volta, come per scherzo, gli posi la domanda: “E in fondo al nostro pozzo, che cosa troveremo? Dell’acqua musulmana o dell’acqua cristiana?” Mi ha guardato un po’ divertito e un po’ penato: “ Ma come? E’ da così tanto tempo che camminiamo insieme, e tu mi poni questa domanda!… Sai, al fondo di quel pozzo, quella che si trova è l’acqua di Dio.[5]
Ecco, al di là delle nostre differenze dogmatiche, teologiche, culturali, c’è questa stessa cosa che cerchiamo tutti, cristiani e musulmani, questa “acqua di Dio” che spegnerà la nostra sete di pace, la nostra sete di salvezza. Christian de Chergé ha cercato questa acqua di Dio con i suoi fratelli cristiani e musulmani in Algeria. Un’acqua viva, come quella in cui il pesce di Mosè e del suo servitore ritrova la vita e dove si trova il confluente dei due mari, il barzakh, cioè l’intermediario dell’incontro.
Soufiane Zitouni, il 8/09/2010
Apparso sul sito oumma.com
[1] Leggere a proposito di questo « ribat el salam » : Christian de Chergé, una teologia della speranza di Padre Christian, Salenso, teologo e direttore dell’Istituto delle Scienze e di Teologia delle Religioni (ISTR) di Marsiglia, pp 232.233. Bayard, 2010
[2] Ibid. cap. 4 : « il posto dell’islam nel disegno di Dio » (pp 53-71) et cao. 6 : « la lettura del Corano (pp 93-106) e un libro collettivo apparso presso Bayard il 16 settembre : « Il Verbo si è fatto Fratello, Christian de Chergé e il dialogo islamo-cristiano », di Suor Benedicte Avon, Anne-Noelle Clément, Roger Michel e Christian Salenson (un gruppo di lavoro dell’ISTR di Marsiglia consacrato ai testi dei monaci di Tibhirine).
[3] Ibid. pp 41-45
[4] Ibn Al-Arabi, Trattato dell’Amore, cap. 7 « Nomi dell’Amore », par 3 « Al-Ishq : Lo straripamento d’amore », pp 123-124, Albin Michel 2007 (traduzione di Maurice Gloton)
[5] Christian Salenson, Christian de Chergé : una teologia della speranza, op. cit. Pp 75-76.